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chiarapesentiagost

Cheddonna e la gita alla miniera del Lavanchetto (parte seconda)



La mattina seguente, di buon’ora, Miomarito aveva spalancato la piccola finestra della camera da letto della baita.

“Cielo terso e temperatura ideale per una gita!” aveva annunciato, trionfante.

Per un po’ Cheddonna aveva finto di dormire, poi si era dovuta arrendere e, a malincuore, aveva ammesso che davvero la giornata era splendida. Così, dopo la colazione energetica approntata da Miomarito, i due si erano preparati per l’ascesa al Lavanchetto.

Miomarito aveva indossato un paio di scarponi da alta montagna, ramponabili e con suola adatta a prestazioni tecniche su superfici impegnative

.

“Bene, non manca niente” aveva annunciato Miomarito, mettendosi lo zaino in spalla e porgendo a Cheddonna i bastoncini da trekking.

Cheddonna si guardava sconsolata i piedi, calzati nei nuovissimi scarponcini di Vuitton acquistati per l’occasione.

“Certo, senza tacco sarebbero stati più adatti, ma tant’è…” aveva sospirato Miomarito, a mezza voce.

Giunti vicino al ponte del Vaud, avevano parcheggiato l’auto e si erano incamminati verso il Morghen, su un tranquillo sentiero tra gli alberi. Cheddonna aveva ammirato lo scorrere impetuoso dell’Anza sotto le assi del ponte, e si era lasciata incantare dalla bellezza e dal silenzio del luogo, fino a quando Miomarito si era arrestato all’improvviso e aveva indicato con la punta del bastoncino l’imbocco del sentiero per la miniera.

“Lavanchetto, 1h 35 minuti”, recitava il cartello, inerpicato su una salita che fin da subito si preannunciava piuttosto impegnativa.

“Avrebbero dovuto scrivere ‘lasciate ogni speranza, voi ch’entrate’, “aveva sbuffato Cheddonna, dopo pochi minuti, rossa in viso e con la messa in piega fatta il giorno prima che cominciava inesorabilmente ad afflosciarsi.

“Il segreto è risparmiare il fiato e procedere con passi lenti e sempre uguali,” aveva sentenziato Miomarito.

Cheddonna aveva snocciolato una serie di improperi non propriamente adatti a una signora, più che per la fatica della salita in sé, per il fatto che la particolare natura del sentiero, accidentato e disseminato di sassi, radici e foglie secche, la costringeva a guardare continuamente dove metteva i piedi e a constatare che quelle che stava indossando non erano le sue imprescindibili scarpe tacco 12, ma un paio di scarponi da montagna, per quanto griffatissimi e con un accenno di tacco.

Un’ora, cinquantacinque minuti (pause comprese) e un imprecisato numero di sospiri e lamentele di Cheddonna, i due avevano finalmente guadagnato la cima.

Lassù, tra gli scheletri dei vecchi edifici della miniera, dalle cui finestre senza più vetri e infissi entravano squarci di un turchese perfetto, il panorama era di quelli che non lasciano spazio alle parole.

Camminando sul sentierino sotto l’edicola col bassorilievo del minatore scolpito nel legno, Cheddonna e Miomarito si erano imbattuti nell’imbocco della miniera: un buco in cui, per entrare, bisognava piegare la schiena e camminare a testa bassa, e dal quale usciva uno spiffero di aria più fredda di quella circostante.

“Che vita dura…” avevano pensato entrambi, scrutando quell’ingresso buio, e provando a immaginare il lavoro dei minatori che ogni giorno si facevano inghiottire da quelle voragini strappate alla roccia metro per metro.

Dopo essersi spazzolata i capelli, che avevano perso ogni traccia della loro abituale vaporosità, e aver riacquistato un colorito meno paonazzo, Cheddonna aveva guardato l’orologio: si era fatto tardi e la discesa, forse più della salita, si preannunciava lunga e non priva di insidie…

(continua)



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